Ebraismo in Italia

a cura di Fabio Ballabio

Qual è, storicamente, il senso della presenza ebraica nel nostro paese?
    Gli ebrei sono presenti nella penisola italica sin da quando, nel 139 prima dellEra Volgare, Simone Maccabeo rinnovò lalleanza della Giudea con Roma. E noto che le tracce della presenza ebraica sono presenti nella stessa letteratura latina, per non parlare dei reperti archeologici.
    Gli ebrei erano una parte costitutiva di quella moltitudine di genti, di religioni, di lingue, di provenienze geografiche, che componevano la realtà cosmopolita dell'Impero romano e che nel contempo conservavano gelosamente i propri costumi e le proprie tradizioni.
    Non c'è dubbio che una prima svolta si sia verificata dopo il 70 E.V., con la distruzione del Santuario di Gerusalemme ad opera di Tito, quando un numero imprecisabile di prigionieri ebrei giunsero a Roma, costretti a portare con sé, bottino dei vincitori, le suppellettili del Santuario stesso. E' un fenomeno non solo ebraico che il sopraggiungere di prigionieri sconfitti può, in determinate circostanze, demoralizzare i loro confratelli già residenti nelle terre del vincitore e comportare una crisi irreversibile; ma, in altre circostanze, e sulla base soprattutto di una cultura consolidata e di una fede profonda, lo stesso fenomeno può comportare una maggiore volontà di sopravvivenza, un maggiore attaccamento ai propri principi. Ed è questo, a quanto pare, che avvenne a Roma in quelloccasione.
    La seconda svolta si verificò nel IV secolo, quando la religione cristiana divenne la religione "di Stato" dellImpero romano. Religione figlia della antica casa ebraica, essa non poteva, in queste nuove condizioni, che diventarne la concorrente aggressiva e oppressiva.
    Per lunghi secoli, ciò fece degli ebrei una presenza quotidiana, dunque vicinissima, eppure allo stesso tempo lontanissima. Essi erano sconosciuti, peggio, presentati in una visione deformante e permanentemente polemica. LItalia, i vari Stati che la componevano, i suoi maestri spirituali, limitarono, non meno di altri Stati europei, i diritti sociali ed economici degli ebrei: li indicarono al pubblico disprezzo, li sottoposero a espulsioni e riammissioni, anche a violenze materiali.
    E tuttavia l'Italia conobbe quasi sempre una certa divaricazione fra le leggi e la loro applicazione pratica.      Non vi fu mai una espulsione totale come in Inghilterra, in Francia, in Spagna e in cospicue zone della Germania, al contrario: gli ebrei espulsi da altri paesi trovavano spesso rifugio a Venezia, Livorno, Ancona, in Piemonte e nella stessa Roma dei Papi; facendo sì che lebraismo italiano non fosse mai "sefardita" (di origine spagnola) o "ashkenazita" (di origine tedesca), o provenzale oppure levantino; ma fosse un intreccio di tutti questi, con gli strati originari più antichi, e acquisisse come lingua propria quella italiana senza mai dimenticare l'ebraico; in altre parole che si caratterizzasse fra le altre comunità della dispersione ebraica tanto da meritare le caratteristiche specifiche dell'ebraismo italiano.
    Gli ebrei italiani, indipendentemente dalle loro origini, divennero italiani nel senso nazionale del termine contemporaneamente agli italiani delle realtà regionali, secondo Momigliano e Gramsci; ma a tal punto che persino un ebreo di origine tedesca come Ettore Schmitz poté diventare un grande scrittore italiano, meglio conosciuto come Italo Svevo. A questo processo fu dato un colpo decisivo solo dalle Leggi razziali del 1938; la responsabilità storica (non, come spesso si afferma, l'errore) del Fascismo (e della Monarchia) fu proprio questo atto che lasciò una cicatrice permanente. Passò la guerra, cadde il regime, ma le cose non tornarono mai più come prima. E forse non solo per gli ebrei.

Quali sono i problemi più rilevanti - dagli ambiti personali a quelli più comunitari e istituzionali - che un ebreo riscontra nel suo vivere oggi in Italia ?
    L'Italia è un paese dove si crede spesso che se esiste una legge che garantisce una minoranza, o quanto meno se non esiste una legge che la opprime, questo sia sufficiente perché la minoranza "stia bene".
    Le cose invece non stanno così, per due motivi.
    Il primo consiste nel fatto che si sa bene quante siano le leggi che nella prassi non si osservano nel nostro paese.
    Il secondo motivo, che è collegato al primo, consiste nei comportamenti quotidiani, nel costume per cui si tende a generalizzare, attribuendo a interi gruppi di persone, per un processo sbagliato di induzione, certe caratteristiche proprie (magari casualmente proprie) di singoli individui, per poi attribuirle anche ai membri del gruppo che non le possiedono. I genovesi (e gli ebrei) sono avari. I romani (e gli ebrei) sono pigri e fanno lavorare gli altri.
    Attribuire a coloro che possiedono qualità non gradite l'epiteto di ebrei è quasi ovvio, e non solo negli stadi. Alle volte pare addirittura che si debba trovare a tutti i costi un motivo per essere ostili agli ebrei; spesso, accantonato quello religioso che non è più tanto accetto, si ricorre a quello politico. Succede così che i discendenti dei Crociati siano presi da un inedito amore per i popoli islamici e attribuiscano tutte le sofferenze dei Palestinesi "agli ebrei".
    In altre parole, malgrado l'abolizione delle leggi razziali e malgrado l'Intesa che regola i rapporti fra le istituzioni ebraiche e lo Stato italiano, si mantiene una cultura diffusa di poca conoscenza degli ebrei come sono nella realtà, di preconcetti e di diffidenze.

Esiste un ebraismo italiano? Quali sono le sue specificità? Come vede il suo futuro?
    Indubbiamente, esso esiste.
    Con questo intendo dire che esistono decine di migliaia di ebrei in Italia che desiderano rimanere ebrei e che sperano che altrettanto facciano i loro discendenti. Intendo poi dire, che, perché ciò avvenga, devono esserci:
a) istituzioni ebraiche in Italia, sia di tipo amministrativo che di tipo educativo e religioso;
b) legami culturali fra gli ebrei italiani e quelli di altri paesi, in particolare con Israele.
    La specificità dellebraismo italiano è quella di essere, allo stesso tempo, profondamente radicato nella realtà culturale italiana e in quella ebraica. "Con David e con Dante i' mi consolo" cantava il poeta ebreo del nostro secolo Angiolo Orvieto.
    Il significato di questo radicamento è che l'Italia ebraica ha poetato, in italiano e in ebraico, con i metri della poesia italiana; ha approfondito la grammatica della lingua ebraica come altri hanno fatto con quella latina; ha sempre chiesto ai propri maestri (leggi "Rabbini") di essere versati nella letteratura talmudica e in quella dei "decisori" - i Rabbini esperti che in tutti i secoli hanno deciso sullapplicazione della normativa e sui casi controversi - ma anche nelle lettere, nella filosofia, nella storia.
    Quanto al futuro, non sono in grado di prevederlo. Posso solo dire per quale futuro stiamo lavorando.      Si tratta di rafforzare le caratteristiche che ho appena descritte, intensificando una rinnovata conoscenza ed uso della lingua ebraica, stringendo intensi rapporti culturali con altri centri ebraici mondiali, primi fra tutti quelli israeliani. Si tratta infine di operare per promuovere dallItalia tutte queste istanze in Europa, consapevoli, facendo gli ebrei europei, di essere anche i rappresentanti della cultura italiana, di quella cultura che, dal Rinascimento in poi, ha saputo essere unitaria, senza privilegiare né la tecnica né la scienza né la speculazione astratta contrabbandata come cultura umanistica, ma facendo di questi campi del sapere un intreccio armonioso a stimolante.
    Questo è un programma di lavoro. Se riusciremo a costruire questo futuro o se invece sarà una fatica vana, potranno dirlo solo i fatti.

E' ottimista o pessimista in merito allevoluzione del dialogo interreligioso nel nostro paese? Perché?
    Debbo dire che dissento dal termine "dialogo" interreligioso che presupporrebbe la presenza di due soli dialoganti o, in subordine, di una costellazione di dialoghi, a due a due indipendenti. Ma il termine ha probabilmente una sua motivazione storica e si è affermato nel momento in cui, sotto l'impulso positivo del Concilio Ecumenico Vaticano II, da una consuetudine a vedere gli altri solo come genti da evangelizzare si è passati a vederli prima di tutto come genti da conoscere. Non sono del tutto sicuro però che in Italia non si veda tuttora la Chiesa cattolica come l'asse attorno al quale ruota comunque questo dialogo. E' recente una sgradevole esperienza personale; in una cosiddetta tavola rotonda - per definizione colloquio a più voci - sono stato invitato da un cattolico a prendere esempio dal fratello musulmano e dal suo modo di rapportarsi "ad Allah" (perché non "a Dio" visto che parlava in italiano?).
    Sia chiaro: io desidero il dialogo - libero, diretto e sincero - fra me ebreo e un mio fratello islamico: ma se esso deve svolgersi sulle linee che ritiene giuste il nostro fratello maggioritario, esso diventa inutile se non banalmente strumentale.
    E tuttavia l'incontro interreligioso è andato sviluppandosi negli ultimi vent'anni e non senza qualche merito anche da parte nostra. E' rimasto però ancora un patrimonio di una piccola minoranza nel paese; e tale è destinato a rimanere, se non diventerà una bandiera di organismi periferici, prime fra tutte le scuole, capaci di farlo promuovere come indispensabile in un paese che ha due sole strade possibili: o quella di un vero pluralismo, o quella di un nuovo razzismo, probabilmente diverso nelle sue forme da quello sperimentato in un recente passato, ma non per questo meno drammatico.

La Chiesa cattolica italiana e i cattolici in genere sono sufficientemente sensibilizzati e formati per questo tipo di incontro?
    Sarei felice di poter rispondere affermativamente a questa ultima domanda, purtroppo ciò non è possibile, o almeno non sarebbe realistico né sincero.
    Ai nostri giorni un alto prelato come il cardinale Biffi ritiene opportuno definire "religione storica del popolo italiano" la religione cattolica. Che cosa significa? Forse che è la religione che meglio si adatta al carattere degli italiani? Ciò è indimostrabile. O forse si intende sostenere che essa si è affermata storicamente nella società italiana? Questa non è certo una valutazione teologica e richiede di spiegare con quali mezzi (sociali, politici e perfino militari) si sia resa riscontrabile questa affermazione. Comunque, vi è la tentazione di stabilire una posizione di partenza in qualche modo "diversa e speciale", che non predispone certamente al dialogo.
    Quelli di noi che vengono invitati nelle scuole per esporre i valori della storia e della cultura ebraica hanno la sensazione di dover ricominciare sempre daccapo; essi sentono da anni le stesse domande tradizionali: "Che cosè per voi Gesù?", "Perché gli ebrei si considerano il "popolo eletto"?"; oppure - strano davvero che questa domanda sia rivolta da figli della maggioranza persecutrice alla minoranza perseguitata: - "Perché gli ebrei sono stati sempre perseguitati? Ci sarà pure un motivo!".
    Dovrei aggiungere la profonda ignoranza biblica della cultura italiana media, associata alluso improprio e spregiativo di vocaboli quali "fariseo", "talmudico", "Giuda". (Ma lo sanno che si tratta del nome della tribù dalla quale derivava anche Gesù?). La strada è molto lunga, tanto lunga da farmi temere che la mia vita non sia sufficiente per vederne percorso un tratto apprezzabile. Non è indifferente a questa realtà il fatto deprecabile che la Bibbia nel suo complesso sia quasi totalmente assente dai percorsi didattici delle nostre scuole.
    E malgrado tutto vorrei concludere con una piccola nota di ottimismo. La stessa presenza di un piccolo strato di persone di buona volontà che questo dialogo, nel vero senso della parola, vogliono sinceramente e si sforzano per svilupparlo, dimostra che esso è possibile e questo solo fatto è di per sé incoraggiante.
    Credo vada fatto inoltre un riconoscimento positivo a questo antico popolo italiano; un riconoscimento che parte proprio dal suo maggior difetto, quello della poca serietà nellapplicazione delle leggi, dellapprossimazione permanente nelle pubbliche decisioni, nellincostanza che è dovuta, in ultima analisi, al fatto che le spinte di opinione, le esigenze contrastanti che sorgono dalla gente non vengono quasi mai respinte o represse severamente, ma si lascia tradizionalmente lo spazio a soluzioni che, nei momenti emergenti, fanno prevalere il solidarismo spontaneo; ed è proprio questo lo spazio dove minoranze e diseredati trovano conforto. Questo è in buona parte quanto hanno sperimentato gli ebrei in questo paese fra il 1943 e la Liberazione. Questo solidarismo può forse anche venire insegnato, ma per prima cosa deve essere sentito, come è effettivamente successo. E forse per questo (ecco unaltra specificità ebraico-italiana) l'Italia è l'unico paese che ha goduto di una lettura del suo nome in lingua ebraica: "I-tal-Jà": "l'isola della rugiada del Signore". Che possa essere di buon auspicio anche per il futuro multietnico dellItalia.

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